“TURBAMENTO E VERGOGNA” A SEGUITO DI VIOLAZIONE PRIVACY, DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO

Corte di Cassazione Ord. 4 giugno 2018, n. 14242

I danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali in base all’art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all’art. 2050 c.c., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (Cass., n. 18812/2014).

La norma prevede due presunzioni:

1) il danno è addebitabile a chi ha trattato i dati personali o a chi si è avvalso di un altrui trattamento a meno che egli non dimostri di avere adottato tutte le misure idonee per evitarlo ai sensi dell’art. 2050 c.c.

2) le conseguenze non patrimoniali di tale danno – sia esso di natura contrattuale che extracontrattuale – sono da considerare in re ipsa  salvo il responsabile riesca a  dimostrare, alternativamente :

                – la loro inesistenza ;

                – che il danno conseguente alla violazione sia irrilevante o “bagatellare”;

                – che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati;

“Gli interessi di volta in volta lesi da un trattamento illecito dei dati personali, rappresentando diritti-interessi inviolabili del danneggiato, assumono un rilievo talmente evidente da comportare l’inversione dell’onere della prova”;  tanto che, secondo la Corte,  la presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale legata alla violazione delle regole di liceità e correttezza  risulta rafforzata proprio dall’esplicito richiamato al concetto di attività pericolosa (art 2050 c.c.) operato dal legislatore.

Ed è proprio il danno non patrimoniale ad essere maggiormente connaturato all’illecito trattamento dei dati personali, tanto che il non avere adottato le misure idonee ad evitarlo integra una violazione delle regole di correttezza e di liceità il cui fine è quello di operare un bilanciamento tra la libertà di chi tratta i dati con la salvaguardia della sfera del danneggiato.

Sarà poi compito del Giudice, in base a quanto dedotto dal danneggiato o a semplici presunzioni e tenuto conto di eventuali prove contrarie fornite dal danneggiante, valutare “se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato”.

Pertanto se il bene violato a seguito dell’illecita lesione del diritto alla riservatezza fa parte dei diritti inviolabili della persona, il danno andrà senz’altro risarcito, anche in via equitativa, salvo il danneggiante non fornisca la prova contraria.

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